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MANI(N)FESTO DI DORA

di FP

 

Eccoci, io e me, a lasciare una traccia che altri hanno definito programmatica, dacché prenderà a scriverci. Non a caso non abbiamo potuto che attendere chi ci chiedesse di farlo.

Tenteremo di non darcene cruccio, così da renderla in qualche modo fedele all’Altro. Nella posizione di analizzante, e solo in quella, si parla e si scrive.

“Quando fui donna, prete di campagna, un mercenario, un padre di famiglia”

cantava Battiato.

Un’operazione fuori senso e fuori obiettivo, come qualunque atto che voglia avere un’incidenza reale, giacché lo scopo non fa che tradire l’atto, procederà alessandrina, senza lasciare guarnigioni a presidio, ma ciò non implica che delle regole, ancorché operative, non debbano darsi.

 

“Le porte non sono uguali!”

“Ok, ma senza porte come giochiamo?”

 

I bambini che acconciano una partitella di calcio sotto la finestra dello studio avrebbero da dirvi molto più di noi, e molto meglio.

Questione topologica. Fuor di calcolo, i vettori rimangono e permangono a delineare un’etica, e non una morale.

 

E quindi un ethos.

 

L’ethos di fondo di Dora è solo la constatazione del fatto che l’uomo non può non averne uno. La Psicoanalisi si mette in ascolto. Poiché non cerca un ordine da Dio dei filosofi, ma si limita ad ascoltare ciò che “parla”, il Dio di Pascal, “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. E di Freud, che infatti si guardava bene dall’averne uno.

La psicoanalisi “si occupa di ciò che non va”, ha detto da qualche parte Lacan.

E certamente la prima cosa a non andare è proprio questo essere al lavoro: qualunque cosa, basta che siamo qui ad occuparcene.

Basta la locuzione “ho da fare” a smantellare Alfieri e le sue liberazioni suicide dal tiranno, pensateci bene.

Ma, in questa ottica, non temiamo di preconizzare l’assenza di obiettivo. Illudersi che questo gesto miri a un effetto, oltre a suscitarci un moto di tenerezza, equivarrebbe a credere sia che si possa fare qualcosa perseguendo un obiettivo, sia che si possa non fare qualcosa meramente non perseguendolo, quindi non averlo affatto. Beata imbecillità.

Un giocatore fermo, in campo, è un avversario. La psicoanalisi si occupa di sintomi perché si occupa di ciò che “non cessa di scriversi”. Non cesserà, possiamo tranquillizzarci in merito, ma qui si tratta di iniziare.

Un ethos, un’etica e una “politica”. Dora raccoglie le testimonianze non sorte da un sapere ma da una posizione e da una postura. Che ci sia dell’inconscio è inderogabile e auspicabile a un tempo. Ma tutto ciò non limita certo le possibilità di azione dell’umano né riduce l’inconscio a un fattore di calcolo.

Accettare il dire, e con questa accetta brandita tra gli sbuffi ingoiare l’ineludibilità del dire qualcosa di qualcosa, ma rifiutarne la dogmatica e con essa la pretesa della verità, che esiste da terza. Come il fallo, “terzo ma non medium”. Non ci illudiamo, niente filosofia.

Dora punterà sempre sulla clinica, sugli esseri umani parlanti, sempre sul possibile, categoria volutamente taciuta e per questo ingiustamente bistrattata, come fosse operativo solo ciò che è già fuga di un segno indicale. Prima abbiamo scritto beata imbecillità. Ora santa, se così fosse.

Il “Dio che parla” ci impone una sola prescrizione. Garantire la presenza d’Altro. Perché il desiderio non finisca per ridursi a uno spento godimento che decede proprio nel conseguimento del plenum, cessando di camminare come un uomo senza sogni, senza u-topie.

Sfameremo un dire a vuoto; e perdiamolo, come si fa con un godimento mortifero, tramite la parola, nell’analisi. Perché si possa mirare davvero a un “fare”, e a un “dire”. Quindi Dora dirà qualcosa di qualcosa di estremamente preciso.

“Crede a quello che fa? Crede nel suo lavoro?”

“Ma non ho bisogno di credere!”

Marie-Hélène Brousse risponde così.

Svelando così come affermazione e negazione non siano che tracciare linee. Ed è che cosa chiamiamo “qualcosa” che fa la differenza.

La psicoanalisi enuclea un qualcosa e un qualcos’altro. Perché l’Uno si dà, ma fortunatamente da solo. Perché lo stesso verbo lo dice.

 

In principio era il verbo, recita il Vangelo di Giovanni.

Il complemento oggetto venne molto tempo dopo, parodia un comico a noi caro.

 

E ha ragione.

Qui, sulla terra, non possiamo che celebrarlo.

Dora racconta e documenta la possibilità di abitare questa postura senza mai cadere nell’infattuale, da un lato, né illudersi che nel “fatto” sia la verità. Abbozziamo delle porte, tanto per iniziare.

Questo sentimento del contrario di pirandelliana memoria chiamiamo umorismo. Lo spirito. L’atto mancato. Il lapsus. L’inconscio è l’ineffabile consistenza delle sue formazioni. Se esiste o non esiste, è un problema della grammatologia, se ne occuperanno i filosofi.

Taglieremo le domande laddove ci saranno risposte puntuali. Chiederemo a vuoto. Niente dibattiti.

Ergo è un atto etico. Ergo è un atto politico.

E la politica, ci indica Lacan ribaltando lo schema di Von Clausewitz, è l’unico punto su cui siamo ben poco “liberi”.

Sulla tattica, vedremo cosa succederà.